Intervista a Domenico Losurdo di Nello De BellisSalerno, 16 aprile 2004 |
Egualitarismo e antiegualitarismo in NietzscheQuali sono, oggi, le forze e i movimenti anti-egualitari, e quali trarrebbero diretta ispirazione dal pensiero nietzscheiano? Non c'è dubbio che la destra estrema, la destra tradizionale, continua ad ispirarsi a Nietzsche. Ma è altrettanto indubbio che l'anti-egualitarismo oggi realmente pericoloso è quello che rifiuta di riconoscere il principio dell'uguaglianza delle nazioni, cui contrappone il primato dell'Occidente, quale erede della tradizione greco-romana e della tradizione ebraico-cristiana, e quale incarnazione privilegiata e unica della Civiltà in quanto tale. Come si atteggia o come si atteggerebbe Nietzsche nei confronti di questi motivi? Per un verso egli, nonché il principio dell'uguaglianza tra le nazioni, respinge con orrore già l'idea di nazione in quanto tale, essa stessa affetta, ai suoi occhi, da un odioso egualitarismo: mette sullo stesso piano, equipara come cittadini sia i signori sia gli schiavi, sia la «razza» dei dominatori sia la «razza» dei servi (è quello che ho chiamato il «razzismo trasversale»). Per un altro verso Nietzsche, che ben conosce gli aspri conflitti storicamente verificatisi tra ebraismo e cristianesimo e tra cristianesimo e antichità classica, potrebbe solo guardare con disprezzo alla rinnovata Crociata contro l'Islam e al mito genealogico dell'Occidente «greco-romano-ebraico-cristiano», investito della missione di evangelizzare, civilizzare e dominare il mondo. In che rapporto possiamo porre la critica al Giudaismo e al Cristianesimo del giovane Hegel (confluita e sviluppata successivamente nella Fenomenologia dello Spirito) con quella di Nietzsche, segnatamente espressa nella Genealogia della Morale? Conviene intanto distinguere tra ebraismo e cristianesimo. Per quanto riguarda il cristianesimo, si potrebbe dire che le analisi di Hegel e Nietzsche convergano: per entrambi la predicazione evangelica è un momento dell'avvento della modernità; per entrambi, prima di dispiegare la sua efficacia politica nel corso della rivoluzione francese, l'idea di eguaglianza ha trovato la sua prima formulazione, in chiave religiosa, per l'appunto nel cristianesimo; per entrambi, questo movimento ha inferto il primo duro colpo alla schiavitù antica. Epperò, il giudizio di valore espresso su questi processi storici è nei due autori del tutto contrapposto. Più complesso si presenta il discorso relativo all'ebraismo. Nel mio libro chiarisco che dall'antisemitismo razziale propriamente detto, le cui pratiche di esclusione e oppressione non consentono via di scampo proprio perché naturalisticamente motivate, conviene distinguere sia la giudeofobia (un atteggiamento di insuperabile ostilità nei confronti della tradizione culturale e religiosa ebraica, che stimola una carica discriminatrice, più o meno radicale, sul piano politico e/o sociale) sia l'antigiudaismo (un atteggiamento critico che però, non mette in discussione l'uguaglianza civile e politica). A proposito di Hegel, si può parlare solo di antigiudaismo: la critica della tradizione ebraica non solo non stimola un atteggiamento discriminatorio ma si accompagna, nella Filosofia del diritto, alla rivendicazione della piena uguaglianza civile e politica degli ebrei. E' una considerazione che potrebbe essere fatta valere anche per autori come Voltaire o come Marx. Diverso è l'atteggiamento di Nietzsche che, negli anni giovanili, risente chiaramente della giudeofobia di Schopenhauer e Wagner. Nel periodo della maturità, per un verso questa giudeofobia dilegua — è noto il giudizio altamente positivo espresso sulla finanza ebraica -, per un altro verso cede il posto ad un atteggiamento ancora più torbido. Gli inizi del ciclo rivoluzionario che devasta l'Occidente, prima ancora che al cristianesimo, rinviano all'ebraismo: è che con esso che inizia la rivolta degli schiavi che travolge il mondo antico e spiana la strada alla sovversione moderna. Genealogia della morale sintetizza così il gigantesco conflitto: «Roma contro Giudea, Giudea contro Roma». A questo punto, l'intellettuale ebreo diviene Yhomo ideologicus per eccellenza, l'agente patogeno che aggredisce un organismo sociale sanamente fondato sulla gerarchia e sulla schiavitù. Non c'è dubbio che il nazismo attinge largamente a questi motivi di Nietzsche, che pure resta estraneo sino all'ultimo all'antisemitismo razziale propriamente detto e al razzismo orizzontale. Non vedo alcun rapporto con l'atteggiamento di Hegel che, in tutto l'arco della sua evoluzione, nell'ebraismo critica l'abisso che esso istituisce tra umano e divino, ciò che renderebbe problematico o impossibile il riconoscersi dell'uomo nel mondo. Hegel non avrebbe certo sottoscritto una lettura di due millenni di storia come scontro tra Roma e Giudea e tanto meno avrebbe potuto identificarsi univocamente con Roma. Nella negazione della verità (intesa in senso hegeliano, quale conformità del reale al suo concetto logico) e, cioè, nella negazione del carattere veritativo della conoscenza filosofica, identificata da Nietzsche, per la sua genesi, nel suo carattere metafisico-religioso, non si cela, forse, una Weltanschaaung "debole" del pensiero, come ha rilevato anche Vattimo? E' un mito liberale (penso a Popper, Talmon, Kelsen) quello secondo cui «fallibilismo» e relativismo sarebbero il fondamento epistemologico della democrazia. Ben diversa è l'analisi della Arendt. Leggendo Le origini del totalitarismo, si ha l'impressione che, almeno per quanto riguarda il fascismo, le cose stiano in modo alquanto diverso e persino contrapposto. Mussolini, che mena vanto del suo «relativismo», rappresenta per la Arendt uno degli ultimi eredi del movimento romantico: è una sorta di individualista arbitrario che ama definirsi al tempo stesso, o a seconda delle circostanze, come aristocratico e democratico, rivoluzionario e reazionario, proletario e antiproletario, pacifista ed antipacifista. Ogni regola e definizione è in un funzione non di un programma, ma semplicemente dell'auto-affermazione ad ogni costo del proprio io. Possiamo andare anche al di là della Arendt e ricordare come Gobineau amasse contrapporre le «tradizioni liberali degli ariani» alP«assolutismo totale» (inteso in primo luogo in senso epistemologico) rimproverato ai semiti. E considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito di Chamberlain, un altro autore di riferimento del nazismo. Ma è soprattutto significativo l'atteggiamento di Rosenberg, che attribuisce a merito di Nietzsche l'essere stato protagonista di una «ribellione contro il rigido schematismo» (in primo luogo hegeliano) e contro la pretesa di una «conoscenza assoluta». Da ciò il teorico del Terzo Reich prende le mosse per denunciare «tutti i sistemi "assoluti" e "universalistici" che, sulla base di una presunta umanità, di nuovo esigono l'unitarietà, e per sempre, di tutte le anime». Come si vede, lo stesso nazismo non ha difficoltà a fare professione di relativismo. Ma è poi vero, come sostengono con modalità ovviamente assai diverse sia Rosenberg che i teorici odierni del post-moderno, che il pensiero di Nietzsche sarebbe sinonimo di relativismo e di concetto debole di verità? Certo, in contrapposizione a Gesù (Ego sum veritas) L'Anticristo celebra Pilato: «Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola "verità", ha arricchito il Nuovo Testamento dell'unica parola che abbia un valore - la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: "che cos'è la verità?"». Epperò, nello stesso Anticristo troviamo dichiarazioni ben diverse o del tutto contrapposte. La lotta a fondo contro il prete, «questo negatore, calunniatore, avvelenatore per professione della vita» è assolutamente necessaria se si vuole dare una «risposta alla domanda: che cos'è la verità^». Infatti, «si è già capovolta la verità, quando il cosciente avvocato del nulla e della negazione è considerato il rappresentante della "verità"» (AC, 8). Val la pena di notare che qui il termine «verità» compare tre volte, ma alle virgolette Nietzsche fa ricorso solo in riferimento ai suoi avversari. In ultima analisi, il filosofo si esprime non già come il Pilato da lui ammirato {Quid est veritasì), ma come il Gesù da lui disprezzato (Ego sum veritas). In modo ancora più netto ciò si verifica in Ecce homo: «La mia verità è tremenda: perché fino a oggi si chiamava verità la menzogna [...] Vuole la mia sorte che io debba essere il primo uomo decente, che sappia oppormi ad una falsità che dura da millenni... Io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata» (EH, Perché io sono un destino, 1). In una lettera del 18 ottobre 1888 Nietzsche contrappone se stesso in quanto «genio della verità» a Wagner quale «genio della menzogna». Così esaltato è il pathos della verità, che il filosofo giunge ad autodefinirsi come «quel primo spirito retto nella storia dello spirito, quello spirito con il quale la verità è pervenuta a giudicare la falsa moneta di quattro millenni» (EH, Il caso Wagner, 3), la falsa moneta del lungo e rovinoso ciclo in cui ha infuriato l'errore o, più esattamente, il delirio del lungo ciclo rivoluzionario ebraico-cristiano. Giungiamo così al punto cruciale. A stimolare la polemica di Nietzsche sono le speranze, i progetti di emancipazione delle classi subalterne, il «dogmatismo» con cui gli schiavi rivendicano l'uguale dignità degli uomini, la «fede» con cui guardano ad un futuro diverso e migliore. E un topos classico del pensiero controrivoluzionario: lo troviamo in Burke, che paragona il fanatismo della rivoluzione francese al fanatismo dell'Islam; l'abbiamo visto anche in Rosenberg. Naturalmente, i protagonisti di questa polemica esibiscono un civettuolo antidogmatismo. Epperò, allorché si tratta di riaffermare il fondamento naturale delle gerarchie sociali, sono essi a esibire le loro certezze. In questo caso, nel confronto tra «dogmatici» e «antidogmatici» si assiste ad un rovesciamento di posizioni. Le medesime considerazioni valgono per Nietzsche, che è così certo della «verità», in base alla quale la civiltà si fonda necessariamente sulla schiavitù, da bollare quali malati e folli coloro che esprimono dubbi. A questo proposito A.I di là del bene e del male dichiara che l'autentico aristocratico respinge da sé con sdegno «il grande succhiatore di sangue, il ragno dello scetticismo» {rinvio al § 21, 6 del mio libro). Si può aggiungere che, ai giorni nostri, Popper, il teorico supremo del «fallibilismo», non esita a bandire le Crociate contro tutti i nemici dell'Occidente: «Non dobbiamo aver paura di condurre guerre per la pace. Nelle attuali circostanze è inevitabile. E' triste, ma dobbiamo farlo se vogliamo salvare il mondo. La risolutezza è qui di importanza decisiva». Proclamare il proprio anti-dogmatismo e leggere la storia come conflitto tra dogmatici e anti-dogmatici, tra seguaci del pensiero forte e seguci del pensiero debole, è l'espressione più ingenua del dogmatismo e del pensiero forte. |